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Impiego della IPT nel trattamento dei Disturbi Alimentari

Dott. Carla Emilia Ramacciotti

Dalla pubblicazione del manuale di “Psicoterapia Interpersonale della Depressione” (1984) ad oggi, il concetto base dell’IPT  che la risoluzione o il miglioramento di problemi interpersonali legati alla depressione può determinare  riduzione o  scomparsa dei sintomi depressivi, è stato applicato in contesti psicopatologici diversi. In particolare l’IPT è stata valutata in studi (controllati e non) riguardanti la depressione maggiore ricorrente (adulti, anziani e adolescenti), la distimia, la depressione in gravidanza, il disturbo bipolare, i disturbi alimentari, la fobia sociale, il disturbo borderline di personalità, il disturbo post traumatico da stress, il disturbo di panico, la depressione in soggetti affetti da HIV. Sono state inoltre messe a punto diverse tipologie d’intervento come l’IPT di coppia, l’IPT di gruppo e l’IPT telefonica.

Nel trattamento dei Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) la terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) e la Terapia Interpersonale (IPT) si sono ritagliate un ampio consenso teorico ma, nel caso della IPT, il suo uso clinico è tutt’ora limitato, pur essendo stata studiata  con  numerosi  studi di efficacia. Le due psicoterapie possono essere associate a terapia psicofarmacologica.

L’IPT è, al momento, la psicoterapia più studiata  come  efficacia teorica, pur con una applicazione clinica  limitata, probabilmente anche per le opportunità di formazione non frequenti. L’IPT è meno impiegata e meno valutata nella Anoressia Nervosa, dove le dimensioni psicopatologiche sono molteplici e complesse, senza parlare della compromissione e coinvolgimento del soma. Il paziente con questo disturbo ha infatti bisogno, molto spesso, di un processo più o meno lungo di maturazione personale nel quale acquisire senso di adeguatezza e di efficacia prima poter essere  aiutato a modificare l’ambito interpersonale, che pur si presenta carente e mal vissuto. In alcuni casi si possono inserire moduli  IPT nel quadro di una CBT. La IPT, pur non affrontando il problema dell’alimentazione in modo diretto, a differenza della CBT adattata ai disturbi alimentari, si è dimostrata efficace in particolare nel trattamento della Bulimia Nervosa (BN) e del Binge Eating Disorder (BED). La terapia in questo caso non si indirizza specificamente sulla modalità alimentare patologica ma, attraverso l’analisi della storia clinica del paziente, tenta di identificare aree interpersonali problematiche spesso collegate con difficoltà di modulazione della affettività. Tale risultato si basa sull’ipotesi  che due motivi  giustifichino l’efficacia di questo trattamento. Il DCA infatti  insorge in genere nell’adolescenza, spesso in un contesto di difficoltà interpersonali e maturative, in secondo luogo   la depressione, l’ansia e la rabbia  sono emozioni fortemente implicate nel peggioramento del comportamento bulimico e tali emozioni derivano spesso da conflitti interpersonali.

Nel BED le abbuffate si manifestano in relazione a stati d’animo negativi piuttosto che come  risposta “fame” legata alla restrizione alimentare. In questo disturbo infatti la restrizione alimentare  non è frequente. Costituisce invece, insieme alle emozioni negative, una causa importante nella BN.  La CBT è stata ritenuta il trattamento più efficace nei pazienti affetti da Bulimia Nervosa, fino alla pubblicazione di uno studio controllato di Fairburn e coll. (1991) che ha evidenziato come la IPT, pur non affrontando il problema dell’alimentazione, potesse essere ugualmente efficace, sulla base dei due motivi già esposti. L’IPT richiede più tempo  per agire sui sintomi ma sembra avere una più lunga durata d’azione. Fairburn ha dimostrato che non sussistevano apparenti differenze tra terapia cognitivo-comportamentale ed interpersonale. Con entrambi i trattamenti, a distanza di un anno, la metà dei pazienti era ancora libera da sintomi, tuttavia il peso corporeo era rimasto stabile nei soggetti trattati con il metodo cognitivo-comportamentale mentre era diminuito nei pazienti trattati con terapia interpersonale (in media 3 kg). I risultati da lui ottenuti sono stati successivamente replicati. Wilfley et al., (1993), in uno studio controllato, ha confrontato la terapia interpersonale di gruppo (16 sessioni) con la terapia cognitivo-comportamentale e la lista d’attesa; sia la terapia cognitivo-comportamentale che la terapia interpersonale si sono mostrate superiori alla lista d’attesa, ma non significativamente diverse l’una dall’altra. Si pensa che la terapia cognitivo-comportamentale e la terapia interpersonale agiscano attraverso differenti meccanismi d’azione, è possibile quindi ipotizzare che un paziente che abbia fallito con la terapia cognitivo-comportamentale possa trarre benefici dalla terapia interpersonale e viceversa. Uno studio di Wilfley  e coll. (2002) ha messo a confronto l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) di gruppo e della psicoterapia interpersonale (IPT) di gruppo nel trattamento del BED. E’ stato osservato che nella riduzione delle abbuffate la CBT e la IPT si equivalevano sia alla fine della terapia che dopo 12 mesi di follow-up; bisogna sottolineare che le abbuffate mostravano un lieve incremento durante i mesi di follow-up, ma rimanevano significativamente inferiori, per quantità e intensità, rispetto al periodo prima del trattamento. I pazienti, inoltre, hanno mostrato una significativa riduzione dei sintomi psichiatrici in comorbidità, per entrambi i trattamenti, e tali risultati sono stati mantenuti durante i mesi di follow-up. Anche il peso corporeo ha subito una diminuzione significativa, anche se ciò ha richiesto maggior tempo, con una maggiore riduzione, però, in quei pazienti  che hanno mantenuto l’astinenza dalle abbuffate per tutti i 12 mesi di follow-up. Si è arrivati così alla conclusione che la psicoterapia interpersonale di gruppo è una valida alternativa alla terapia cognitivo-comportamentale di gruppo nel trattamento dei pazienti BED; entrambi i trattamenti, infatti, hanno mostrato di essere efficaci, sia a breve che a lungo termine, nell’intaccare il nucleo psicopatologico e i relativi sintomi del BED.

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