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IPT e Disturbo di Panico

Dott. Marco Saettoni

L’adattamento dell’IPT al trattamento del disturbo di panico si sviluppa alla luce di tre tipi di osservazioni: 1) la presenza di limiti di efficacia della terapia farmacologica, in particolare nella persistenza dei buoni risultati ottenuti in fase iniziale; 2) il dato della letteratura scientifica sulla più che significativa presenza di “stressors” interpersonali nelle fasi che precedono la comparsa della sintomatologia ansiosa; 3) l’andamento clinico della terapia con la classica IPT della depressione con comorbilità ansiosa.

Per quanto riguarda il primo punto, come evidenziato in un lavoro di Palazzo e Biondi (2004), gli studi naturalistici sul disturbo di panico ne sottolineano le caratteristiche di decorso tendenzialmente cronico, recidivante e remittente, con percentuali di pazienti in remissione varianti da un minimo del 12% a 5 anni di follow-up ad un massimo del 38% a 3 anni; il tasso di remissione è maggiore considerando periodi più brevi mentre con l’aumentare degli anni di follow-up la percentuale dei pazienti in remissione decresce con un andamento tendenzialmente lineare. Una interessante metanalisi di Mitte (2005) sull’efficacia delle terapie del disturbo di panico ed il confronto fra psicoterapia e trattamento combinato (psicoterapia cognitivo-comportamentale e terapia farmacologica) evidenzia che in fase acuta la combinazione è lievemente più efficace, non si riscontrano differenze nella fase di follow-up, i drop-out sono significativamente più frequenti col  farmaco, mentre nel post-treatment i soggetti trattati con la sola psicoterapia risultano significativamente meno sintomatici. Detto in altri termini, combinare i due trattamenti, alla lunga, mina la stabilità dei risultati ottenuti con la psicoterapia.

Per ciò che concerne il secondo spunto di osservazione, i pazienti con disturbo di panico riferiscono frequentemente la presenza di stressors interpersonali nei mesi precedenti l’esordio sintomatologico (Roy-Byrne e Uhde, 1988; Faravelli e Pallanti, 1989) come perdita o separazione dal partner, nascita di un figlio, surmenage lavorativo o scolastico (Doctor, 1982; Last et al., 1984), alti livelli di conflittualità coniugale (Last et al., 1984; Marcaurelle et al., 2003) oppure la presenza di difficoltà sul piano relazionale (Goldstein e Chambless, 1978; Busch et al., 1991, 1995; Shear et al., 2001). Più nel dettaglio, Scocco et al. (2007), in un campione di soggetti con disturbo di panico hanno riscontrato la presenza di rilevanti problemi interpersonali nell’anno precedente l’esordio psicopatologico, sotto forma di cosiddette transizioni di ruolo (92,7% dei casi), difficoltà interpersonali (85,5%), contrasti interpersonali (74,5%) e lutto (38,2%). Tutto questo può costituire un razionale di impiego delle tecniche di psicoterapia interpersonale nel trattamento di questo disturbo d’ansia.

Un ulteriore spunto clinico che avvalora questa possibilità di impiego della IPT proviene dalle osservazioni del gruppo di lavoro di Ellen Frank a Pittsburgh; nel trattamento della depressione con IPT, in caso di comorbilità ansiosa, si hanno un minore tasso di remissione (Frank et al., 2000; Frank et al., 2002) e, comunque, tempi più lunghi per la risposta al trattamento (Frank et al., 2002). D’altronde, l’IPT si basa sullo stimolare i pazienti a identificare i propri stati emotivi utilizzando specifiche aree problematiche, focus della terapia e l’apprensività e la tendenza all’evitamento, tipici dei pazienti depressi con ansia-panico, possono rendere difficile mantenere il focus problematico e quindi ostacolare la remissione. Lo stesso gruppo di Pittsburgh ha quindi messo a punto un adattamento della classica IPT per il trattamento delle forme ansioso-depressive; tale adattamento, il cui acronimo è stato definito come IPT-PAS, presta particolare attenzione alla dimensione ansia di separazione, all’aumento dell’assertività interpersonale, alla riduzione dell’evitamento dei conflitti.

Con le suddette premesse si è arrivati poi all’IPT-PD, ovvero all’IPT specifica per il Disturbo di Panico. Un primo studio pilota è pubblicato nel 2006 (Lipsitz et al.) e nello stesso articolo vi si descrivono le variazioni rispetto alla classica IPT per la depressione. Le possibili aree problematiche (il focus della terapia) diventano tre: vengono mantenute la transizione di ruolo, il contrasto di ruolo ed il lutto e non si prende in considerazione l’area dei deficit interpersonali). L’atteggiamento del terapeuta è sempre quello “patient advocate” ovvero di incoraggiamento costante nei confronti del paziente all’espressione dei propri sentimenti relativi alle relazioni ed al loro chiarimento e accettazione. La terapia si svolge mantenendo una stretta connessione fra l’area problematica individuata ed i vissuti emotivi del paziente. Altro aspetto enfatizzato è quello della definizione dei ruoli, dell’attribuzione del ruolo di malato, non colpevole della malattia ma corresponsabile della cura.

Nelle sedute iniziali si fa specifica attenzione ai sintomi come componenti di un UNICO disturbo d’ansia CURABILE, si raccoglierà il cosiddetto inventario interpersonale, ovvero la raccolta di tutte le relazioni interpersonali più significative e si arriverà ad una scelta CONDIVISA dell’area problematica.

Nelle sedute intermedie si stimola il paziente ad esplicitare i sentimenti relativi alla relazione problematica (lutto, contrasto, transizione) e lo si aiuta a chiarire la natura di questi sentimenti e lo si guida verso l’accettazione; è inoltre importante favorire lo sviluppo di strategie di coping per la gestione del problema, mantenere costantemente il focus sull’area problematica e sottolineare la correlazione fra le variazioni della sintomatologia ed i cambiamenti riguardo il focus.

Nelle sedute conclusive il terapeuta ricerca un feed-back dal paziente sui cambiamenti avvenuti e pone enfasi sulle competenze sviluppate

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